Mi avevano detto che se non
hai visto Pitigliano non
puoi sostenere di aver visitato la Toscana. Beh, ora posso confermare che è
vero, e che è valso l’ennesima, piccola deviazione dal nostro viaggio verso
sud.
In effetti questa gigantesca
stalagmite di tufo intagliato che si erge solenne dalle scure valli boscose è
un mondo a parte, pare un presepe scolpito nella roccia in tempi immemorabili.
Quando arriviamo al tramonto, i mitici uccelli di Pitigliano anneriscono il
cielo violetto d’un’agile nuvola animata che svolazza irrequieta dal paese e i
suoi palazzi merlati alla foresta e i suoi meandri misteriosi.
E pure nel suo groviglio
cupo e silente, la foresta nasconde mirabili e sorprendenti opere umane. Le
suggestive vie cave,
scavate nel tufo dagli etruschi e solcate da generazioni di viaggiatori,
mercanti, contadini, hanno costituito per secoli l’unica via di comunicazione
tra i paesini sparpagliati in mezzo a queste valli estreme, reggendo in modo
sostanziale la mobilità locale fino agli anni Cinquanta. Raro esempio, unico
nel suo genere, di regimazione idraulica e ingegneria stradale concepite e
realizzate in stretta simbiosi con il paesaggio, le vie cave rappresentano la
testimonianza tangibile dell’ingegno ecologico dei popoli antichi, che vivendo
a stretto contatto con il territorio, ne amministravano le risorse con
parsimonia e lungimiranza.
Nei calanchi profondamente incuneati tra le erte
pareti alte e ravvicinate di questa roccia straordinaria, estremamente
modellabile ma anche soggetta a una forte cementificazione e perciò al contempo
facilmente trasformabile, resistente e duratura, si è creato un microclima
endemico tipico dei luoghi umidi e ombrosi.
In questa frattura
multidimensionale bordata di felci arricciate e muschi odorosi, è tuttora
possibile avvertire e immergersi nell’eco di un’epoca in cui non era necessario
inventare un senso per il viaggio, calpestando le impronte levigate degli
zoccoli dei muli che hanno calcato questi viottoli scoscesi, affacciandosi sui
resti delle necropoli che hanno guardato
le spoglie degli antenati tornare polvere e memoria, addentrandosi nelle grotte
che hanno accolto pellegrini e viandanti
quando ancora viaggiare era un’avventura e un incanto dei sensi.
Ma anche la città nasconde
segreti e sorprese. È anzi tipico della città catturare, sezionare e
collezionare il mistero della natura per farne un tesoro da preservare
gelosamente nelle sue teche come un monito magico, un talismano che sprigiona
ancora il senso della vita, bello e immortale, anche nella gabbia della città,
cementificata ed effimera.
È questo il senso dell’immane e meraviglioso lavoro
di Adrian,
il creatore e custode dell’incantevole “Insectarium mirabilis Athanor Phanaeus”.
Adrian non è soltanto un collezionista di insetti dei più ossessionati e
appassionati, ma è anche un formidabile narratore di storie psicomagiche e l’entusiasta
depositario di una conoscenza densa e profonda del complesso e affascinante
micro-universo dell’entomologia, che a ben guardare presenta così tante
corrispondenze, affinità, soluzioni e spunti di riflessione anche riguardo alla
società umana.
Nella sua bottega, dove niente è in vendita ma tutto è messo a disposizione
dei visitatori, si entra in una dimensione parallela di strani esseri alati e
plurizampati, orripilanti e meravigliosi, che trasportano gli ignari spettatori
in un altro stato del mondo e dell’essere. Si prova quella sensazione descritta
dai sommozzatori che, immersi nelle profondità del mare, vengono rapiti dalla
carambola abbacinante di esseri alieni, colori fluorescenti e silenzi abissali
dei fondali oceanici; dagli speleologi che, intrappolati nella stessa
stupefacente atemporalità cosmologica dove tutti i riferimenti spazio-
temporali sono sovvertiti, si addentrano in cavità buie e maleodoranti che
stalattiti, stalagmiti e altre inimmaginabili architetture naturali trasformano
in cattedrali e templi; dall’esploratore che, sperduto nel rigoglio
soverchiante della foresta amazzonica o nell’atroce vastità del deserto, ammira
l’immensità splendida e agghiacciante della natura in assenza degli uomini. È
insomma un viaggio metafisico che prevede la propria assenza, e porta in questo
modo alla scoperta di sé, nel silenzio toccante della propria nudità. E di
questo viaggio Adrian è Virgilio e Caronte, guida colta ed esperta che ti
accoglie in questo pianeta alieno con tutti gli accorgimenti e le spiegazioni
del caso, e traghettatore infernale che con la sua figura fuori dall’ordinario
ti avvolge senza appigli nello scioccante universo che egli stesso rappresenta.
Adrian si diletta ad interpretare la società umana attraverso il riferimento al
mondo degli insetti. C’è l’uomo vanitoso, il bullo, che, come lo sgargiante
millepiedi rosso fiamma, è territoriale al massimo e vuole affermare a tutti i
costi la sua presenza; e c’è invece l’uomo samurai, il cacciatore più
pericoloso, che, come il filloide dalle grosse ali identiche ai semi della
carruba, si mimetizza apparentemente innocuo nell’ambiente senza farsi notare e
quando colpisce è impietoso e letale. Ci sono i burocrati, la specie più
distruttiva, che, come le devastanti blatte, travolgono ogni cosa nella loro
struttura di sistematica e spietata razionalità e spazzano via tutto quello che
trovano sul loro cammino; e ci sono gli artisti, anime variopinte e leggiadre,
tra le quali lo stesso Adrian, che, come gli insetti impollinatori – e ce n’è almeno
uno per ogni pianta, dal ribes al baobab! – sparpagliano bellezza costituendo
così tasselli amabili e indispensabili del fermento vitale della natura. E ci
sono infine gli insetti più venerati dai popoli antichi, quelle civiltà che ancora
conservavano la sapienza derivata loro dall’istinto naturale, dalla memoria
saggia dell’animale, dalla conoscenza innata della terra: gli stercorari, ossia
il famoso scarabeo sacro agli egizi, agli etruschi, agli aztechi, il cui
simbolo ricorre in tutte le mitologie, perché è l’essere che con la sua opera ciclica
e incessante crea la terra sulla quale viviamo, il suolo che ci nutre, l’humus
di cui siamo fatti. «Lo stercorario è sacralizzato in varie parti del mondo, perché?
Perché fa la terra che noi calchiamo, e gli antichi lo sapevano. Immaginati un
essere che depone le sue uova nello sterco che ha sepolto sottoterra, immaginati
un inizio migliore di questo! È l’animale più utile del mondo, e dopo di loro
ci sono le api.»
Tra i mandala cangianti di
un caleidoscopio di sensazioni che si inseguono fulminee tra i bagliori abbacinanti
di ali di farfalla, la madreperla opalescente di chele speronate e le
iridescenze metalliche di pelli coriacee, i cui allucinanti ghirigori rimbalzano
riflessi nelle estrose e dolci pitture di Adrian, ecco un angolo di mondo
ancora in grado di emozionare e toccare corde profonde.
La bottega di Adrian è a
Pitigliano, al civico 1 di Vicolo delle Riforme.
Qualche risorsa:
bella descrizione come sempre grandi..la prx vengo anche io.... buon viaggio..
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